… Nel Sud d’Italia il banditismo sociale assunse in effetti la tipologia di una sorta di “una rivoluzione di masse e di una guerra di liberazione guidata da banditi sociali”.
La situazione del Meridione nella crisi dell’unificazione attribuì al banditismo sociale meridionale caratteri specifici pur sotto il lato politico. La forza d’urto dei banditi e la mancanza di ogni programma a lunga scadenza resero tale forma di banditismo uno strumento efficace nelle mani di partiti e classi sociali meglio inserite nel contesto produttivo moderno. Così tale forma di “delinquenza organizzata” divenne nel Meridione un aspetto basilare dello scontro a tre che si giocava fra moderati, raclicali e borbonici.
L’energia del brigantaggio non sarebbe stata efficace senza la rete di complicità che coinvolgeva tutti i ceti del paese.
E’ tuttavia possibile che all’interno di tale rete un ruolo fondamentale sia stato svolto dagli “stati intermedi contadini” attratti dall’idea di una gestione ad essi giovevole della questione demaniale ed anche ad una ripresa della lotta politica.
La partecipazione degli stati intermedi contadini a molte “reazioni” fu effimera.
Tuttavia anche se siffatti strati sociali, sempre in balia di speranze, delusioni e rancori, collegati alle vicissitudini delle operazioni demaniali, non scesero in campo apertamente in favore del brigantaggio, gli fornirono, sin alla fine del 1863, un buon appoggio, che, seppure insieme ad altri aiuti, giustifica la sopravvivenza delle bande e il loro rinascere dopo sconfitte pesanti, il loro abituale vantaggio nella sorpresa, e, contemporaneamente, l’isolamento dell’esercito nella sua opera di repressione, la titubanza delle guardie nazionali ed ancora le perplessità nello schierarsi dei “galantuomini”.
Questi strati intermedi contadini sono da identificarsi con quella ” parte del corpo sociale” che, come scrisse nel 1860 (20 dicembre) “Il Popolo d’Italia”, “…è formata fra noi dai mezzari e piccoli proprietari e fittavoli agricoli”.
Ai medesimi strati si riferisce Giustino Fortunato (“Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano. Discorsi politici”, 1880 1910, vol. I, Laterza, Bari, 1911, pp. 85 – 86), cui attribuisce la colpa de “la ormai quasi totale esclusione dei municipi dei maggiori censiti, la dannosissima incentiva dei privati domini, quella nube di non so quale sospetto, che involge quasi dappertutto, l’ordine e il progresso della prudenza territoriale… Da qui il sobillare indefesso dell’orecchio dei contadini, così proclivi alla credulità, per diritti o realmente o bugiardamente conculcati, di falsi tribuni gaudenti a spese del gravoso bilancio comunale; le occupazioni a mano armata”.
In questo contesto la repressione del brigantaggio postunitario rientrò in un’azione politica complicata e comunque volta ad impedire lo stabilirsi di un legame fra insurrezione contadina e movimento radicale. Non è casuale che l’anno 1863 segni il graduale distacco fra strati intermedi contadini e brigantaggio, e l’accentuarsi della crisi politica della sinistra .
Nei tempi intermedi fra le “reazioni” dell’autunno 1860 e l’arresto di Josè Borjes comandante legittimista catalano, che guidò parzialmente il brigantaggio dal settembre I86I e che fu poi catturato e fucilato a Tagliacozzo l’8 dicembre (1861), il brigantaggio acquisì carattere politico in senso borbonico.
Le “reazioni” dell’autunno 1860-inverno I861 furono infatti sostenute dallo spodestato Sovrano borbonico Francesco II, cui lo Stato Pontificio aveva concesso il proprio territorio come utile base operativa.
Nei mesi iniziali del 1861 forti bande operavano al comando di Giovanni Piccioni nell’Ascolano, di Angelo Camillo Colafella nel Chietino, di Chiavone (Luigi Alonzi) al confine pontificio, di Carmine Crocco ex bracciante dei Fortunato e Ninco Nanco, alias Giuseppe Nicola Summa, in Basilicata.
La lotta governativa avverso le bande armate acquisì in breve tempo subito connotati assolutamente militari.
Il 23 ottobre Fanti sentenziò la competenza dei tribunali militari straordinari per i briganti e quanti opponessero resistenza con le armi; nel mese di novembre vennero proclamati in stato d’assedio vari comuni della provincia di Teramo.
Contemporaneamente taluni militari quali il generale Pinelli presero ad esercitare pressione affinché si estendesse la pena capitale tramite fucilazione agli insorti sorpresi in armi ed ai sobillatori.
I1 generale Giacomo Durando, succeduto al Della Rocca a capo del VI corpo d’armata destinato al Mezzogiorno, ottenne, nel giugno 1861, un aumento da 51 a 57 battaglioni potendo quindi disporre di una forza complessiva di circa 20 mila uomini.
Nonostante la consistenza di queste forze fu praticamente impossibile arginare nell’aprile 1861 la sollevazione avvenuta in Basilicata sotto la guida di Crocco e con l’ausilio dichiarato dei contadini e di svariati proprietari terrieri: l’evidente colore politico dell’impresa fu segnato pubblicamente dal fatto che le forze banditesche, in grado di conquistare basi importanti come Venosa e Melfi, marciavano sotto le insegne della vecchia bandiera dei Borboni.
Nelle settimane successive il brigantaggio si spinse apertamente contro i liberali in Irpinia, Capitanata, nel Casertano dove operavano le bande La Gala, forti di circa 300 uomini cui si erano aggregate formazioni minori.
All’ingresso vittorioso dei banditi, in vari comuni fu ammainata la bandiera sabauda e innalzata quella borbonica: si ebbero gesta criminose, vendette private, addirittura si instaurarono governi provvisori.
In dipendenza di tutto ciò la risposta governativa non si fece attendere sul piano militare di repressione.
Nell’estate 1861 le truppe regolari procedettero ad una scientifica distruzione dei paesi ribelli, con le fucilazioni in massa degli abitanti.
A Gioia del Colle, in seguito ad uno scontro cruento, i regolari procedettero quindi all’uccisione di 100 popolani ed alla fucilazione di un’altra ventina il giorno seguente.
Nella primavera-estate di quell’anno tutto il Sud d’Italia giaceva in una situazione drammatica, aggravata dall’improvvisa morte di Cavour i cui successori, per quanto mossi da buoni intenti, non godevano certo delle stesse qualità sì da lasciare perplessi sui futuri destini di queste vaste regioni dell’Italia appena unificata.
Il nuovo governo presieduto da Bettino Ricasoli che ebbe il dicastero degli esteri, risultò composto: da Minghetti (interno), Bastogi (Finanze) Peruzzi (lavori pubblici), De Sanctis (istruzione), Miglietti (grazia e giustizia), Cordova (agricoltura e commercio), Menabrea (marina), Delia Rovere (guerra).
Quando il generale Cialdini giunse a Napoli verso luglio, ottenne che una buona parte dell’esercito italiano schierato sul Mincio fosse trasferito nel Sud: in questo modo i 22.000 soldati di Fanti divennero entro pochi giorni quarantamila e raggiunsero la cifra di cinquantamila verso la fine dell’anno. In un biennio il loro numero venne raddoppiato, di modo che nel 1863 il Gran Comando del La Marmora poteva mettere in campo truppe per il considerevole numero di 105.209 uomini, vale a dire l’equivalente dei due quinti di tutte le forze armate di cui disponeva l’Italia.
Cialdini progettò l’ideazione di un’alleanza coi democratici per combattere insieme la reazione borbonico-clericale e contestualmente reprimere con efficacia il brigantaggio.
Pantaleoni meglio di tutti espose la situazione in un rapporto al Minghetti, nel quale, riflettendo il punto di vista dei moderati, scriveva: ” La deferenza che Cialdini mostra per Nicotera, Fabrizi, Tripoti non piace troppo… Nel resto Cialdini è popolare. Non così De Blasio il quale a farsi una popolarità pare che ci minacci di una tale infornata di impiegati quasi tutti del partito d’azione ” .
Le guardie nazionali stanziali vennero affiancate da guardie nazionali mobili, almeno due per distretto: il loro arruolamento fu realizzato senza distinzioni a sinistra ebbe grande successo, sì che in pochi giorni si presentarono circa 600 ufficiali garibaldini, e a Napoli in soli due giorni 8000 volontari. Entro il 14 del mese di agosto erano state create 69 compagnie che insieme ammontavano a decine di migliaia di uomini, il meglio, in pratica, del volontarismo meridionale unitario di estrazione borghese e piccolo borghese.
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